Vi è mai capitato di entrare in un ristorante e vedere qualcuno mangiare con un caschetto sulla testa, con tanto di elettrodi? Se vi è capitato, sappiate che non si trattava di uno strumento per effettuare un elettroencefalogramma, bensì di un apparecchio per realizzare analisi di neurogastrofisica, la branca delle neuroscienze che analizza il cervello mentre si mangia e beve. “È la nuova frontiera del marketing di
grandi chef e produttori agroalimentari per misurare quanto sia appagante un
cibo o un'esperienza al ristorante -spiega Vincenzo Russo - professore IULM e direttore scientifico del Centro di ricerca di neuromarketing `Behavior and Brain Lab - in un’intervista uscita su Il Messaggero in occasione della pubblicazione del suo nuovo libro “Neuroscienze a tavola”.
I campi di applicazione della neuroscienza sono ormai tantissimi. Nei musei si chiama neuroestetica; neurocinema al cinema; neuroselling per misurare le capacità di chi lavora per misurare le capacità di chi lavora nel commercio. C'è anche la neuropolitica per capire se le emozioni di chi promette una cosa sono coerenti con quel che dice. «Servono
strumentazioni neuroscientifiche come il caschetto posto sulla testa che rileva
l'attività elettrica del cervello, oppure l'eye-tracking, cioè una mascherina sugli
occhi che rileva movimenti, dilatazione delle pupille, frequenza di chiusura
degli occhi e poi la skin conductance, per rilevare la microsudorazione corporea
di fronte a uno stimolo. Per l'intensità emotiva usiamo anche degli anelli che contano
il battito cardiaco. Infine, il FaceReader, il lettore del viso, analizza come
si muovono in modo incontrollato in base alle emozioni i muscoli facciali. Tutto
è sincronizzato e i dati vengono incrociati».
Ma, tornando alla neurogastrofisica, da cosa dipende allora il piacere di un piatto? “La nostra risposta al cibo è guidata da moltissimi
fattori che contribuiscono a costruire l'esperienza enogastronomica – spiega Russo. Si tratta di stimoli sin dal modo con cui i piatti vengono
descritti. Anche le luci, la musica d'ambiente, la forma dei piatti hanno un
impatto sulla percezione dei sapori. La risonanza magnetica evidenzia infatti che
certi stimoli attivano la parte più antica del cervello - il sistema limbico -
che si muove in maniera automatizzata e involontaria. In questa parte del
cervello risiedono alcune aree - l'amigdala, l'insula, il nucleus accumbens - direttamente
collegate con le emozioni negative (come paura, disgusto, ansia) o positive
(come piacere e gusto) che giungono prima di qualsiasi considerazione razionale
«In appena 13 millisecondi emergono le prime reazioni. Poi il nostro cervello contribuisce,
consapevolmente e soprattutto inconsapevolmente, a decifrare ciò che i sensi rilevano,
offrendo una realtà a volte molto diversa da ciò che gli otto sensi hanno rilevato.” Sì, perché i sensi non sono solo cinque, come comunemente si pensa, ma otto. A vista, udito, tatto, gusto e olfatto bisogna aggiungere il senso vestibolare (responsabile della nostra percezione di equilibrio su un piano), quello cinestetico (che permette di percepire il movimento nello spazio del nostro corpo) e quello viscerale che permette di percepire lo stato delle nostre viscere, strettamente legato all'insula, ovvero una ghiandola del sistema limbico che è prevalentemente deputata alla percezione del disgusto.
Un colorante può quindi influenzare la percezione del gusto o del sapore rendendolo più intenso. Per esempio, il colorante verde fa percepire meno la soglia di acidità di una bevanda, aumentando allo stesso tempo la rilevazione della sua dolcezza. L'uso di colorante alimentare può provocare fino al 10% di dolcezza percepita. Anche gli odori possono influenzare il sapore di un cibo. “Non c'è odore nelle molecole che
stimolano i nostri recettori – spiega Russo – Ma questi hanno la
capacità di riconoscere le caratteristiche delle differenti molecole odorose
attivando una specifica parte del cervello. Quella che poi ci fa percepire l'odore».
Infine, anche le parole, il naming, di un piatto può influenzare la scelta dei consumatori.
“Un test in Usa ha dimostrato che la stessa identica insalata Pasta
Salad ribattezzata Salad with Pasta è stata giudicata più salutare e scelta da
chi seguiva una dieta ipocalorica. I nomi servono anche a richiamare autenticità
e origine, a evocare storie.”