Abolita la censura nel cinema?

Cultura - 09 aprile 2021

Il Ministro della Cultura Dario Franceschini ha firmato il 5 aprile scorso un decreto che abolisce la censura cinematografica. È davvero una rivoluzione? L'opinione di Riccardo Caccia, docente IULM di Storia del Cinema.

In questi giorni, sulle pagine e sui siti di molti quotidiani e riviste, si fa un gran parlare, con toni, a dire il vero, anche molto discordanti, della recente firma da parte del ministro Franceschini di un decreto che abolisce la censura cinematografica nel nostro Paese. I titoli sono spesso suggestivi: "Abolita la censura", "L'Italia dice addio alla censura", "Addio censura al cinema" e così via. Ma il tono degli articoli esprime in molti casi una certa perplessità. Cerchiamo allora di capire meglio. 

Il decreto stabilisce innanzitutto la nomina di una commissione formata da 49 professionisti, a vario titolo, del settore degli audiovisivi, più il presidente della stessa, che avrà il compito di valutare la corretta classificazione delle opere cinematografiche. Fin qui nulla di particolarmente nuovo: la novità sta nel fatto che saranno i produttori o i distributori stessi ad autoclassificare l’opera cinematografica, mentre la commissione dovrà validarne la congruità. Oltre ai divieti già previsti ai minori di 14 e 18 anni, verrà introdotta una nuova fascia di divieto ai minori di 6 anni. In questo modo lo Stato cerca di coinvolgere gli operatori del settore rendendoli in un certo senso corresponsabili delle scelte di classificazione dei film.

La novità maggiore che viene però sbandierata sotto gli occhi dell'opinione pubblica è che non potranno più esservi veti censori che impediscano l'uscita di un film in sala o che impongano tagli all'opera: la sacralità dell'autore viene così finalmente rispettata. E allora abbiamo riletto ovunque le parole del giovane (all'epoca) sottosegretario democristiano Andreotti che, a proposito di Umberto D. (1952) di De Sica, ebbe a commentare che "i panni sporchi si lavano in casa propria"; della condanna al rogo, come per le streghe del medioevo, di Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci; delle accuse di oscenità a La grande abbuffata (1973) di Ferreri o al postumo Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini. Niente più di tutto questo, d'ora in poi. La notizia non può essere che accolta con giubilo, anche se poi, a ben guardare, ci si rende conto che l'ultimo film ad aver avuto problemi seri con la censura è stato Totò che visse due volte, di Ciprì e Maresco, che risale a oltre vent'anni fa. Più di un commentatore ricorda poi come in molti casi il cinema si debba scontrare con quella che, nell'epoca delle ideologizzazioni, veniva chiamata "censura del mercato", evocata in questi giorni in una sorta di rigurgito anti-liberista che fa persino un po' sorridere.

Il provvedimento riveste comunque un grande importanza, soprattutto dal punto di vista culturale, perché segna la fine di una visione statuale che trattava vgli spettatori come sudditi, più che come persone in grado di scegliere o meno di recarsi a vedere un'opera, per quanto blasfema o oscena. Rimane il dubbio che, nell'epoca delle piattaforme e delle OTT, in cui già la diffusione delle opere cinematografiche sottosta a un sistema di autoclassificazione e, perché no, di autocensura, il decreto risponda più che altro alla necessità di adeguarsi a uno scenario, come quello degli audiovisivi, i cui cambiamenti recenti, di enorme portata, impongono un ripensamento a tutti i livelli dei criteri e delle modalità di valutazione delle opere. Per tacere poi del fatto che oggi sappiamo tutti bene che, per quanto un film possa essere "invisibile" per problemi censori, le risorse — lecite e non — che il web mette a disposizione degli utenti, rende ormai provedimenti quali il veto o il bando di un film oggettivamente ininfluenti. Certo, stiamo parlando di un mondo che fa corpo a sé rispetto alla sala cinematografica, ma è il mondo nel quale siamo sempre più immersi, anche come spettatori di film. 

Di Riccardo Caccia