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Employee advocacy
L’employee advocacy è il tema del Dialogo del CERC fra Alfonsa Butera, Università IULM, e Giovanna Di Bacco, L’Oréal Italia.
Uno scambio di opinioni da due prospettive, quella accademica e quella professionale, intorno a un tema sempre più attuale: quello dei collaboratori come comunicatori attivi.
L’opinione di Alfonsa Butera, Docente a contratto di Comunicazione d’impresa, Università IULM
In questi anni sul piano accademico si è consolidata la consapevolezza della profondità del concetto di employee advocacy: è possibile ricondurvi infatti i comportamenti volontari e spontanei di supporto, raccomandazione o difesa nei confronti dell’azienda che i collaboratori mettono in atto sia in forma verbale sia non verbale, tanto nei confronti di altri colleghi quanto di stakeholder esterni, sia nell’ambito del proprio ruolo prescritto sia al di là di esso. Il termine advocacy è spesso associato a quello di ambassadorship e il dibattito è aperto sulle differenze e le sovrapposizioni fra i due concetti. In molti casi i due termini sono usati come sinonimi e in effetti la prassi professionale spinge in questa direzione.
Ma perché è importante? In primo luogo ha un’influenza positiva sulla reputazione, in quanto i collaboratori sono ritenuti dagli stakeholder una fonte di informazioni autentica e credibile. Ha anche un impatto positivo sulla capacità dell’azienda di attirare e trattenere talenti e sulle intenzioni di acquisto dei clienti.
Ne consegue che le aziende dovrebbero occuparsi in modo strategico dei driver che la sostengono. Tra questi, l’allineamento fra i valori della persona e quelli organizzativi: serve dunque lavorare per una cultura organizzativa basata su valori etici condivisi. Inoltre sono cruciali il livello di employee engagement e la qualità della relazione collaboratore-organizzazione: fondamentale dunque lavorare sulla qualità dell’employee experience e sulla percezione di inclusione dei collaboratori.
Tuttavia le aziende temono che nelle loro attività di advocacy i collaboratori possano diffondere informazioni errate o disallineate rispetto alla corporate identity che intendono veicolare. Del resto alcuni studi mostrano che i collaboratori stessi preferiscono comunicare riguardo al proprio lavoro sui social media personali basandosi su informazioni pre-esistenti online, per non commettere errori. Da qui la spinta a strutturare veri e propri programmi di employee advocacy.
Formalizzare programmi di employee advocacy tuttavia ne può minare alla base la capacità di sortire effetti positivi, poiché compromette l’autenticità dei comportamenti dei collaboratori percepita dagli stakeholder. Si tratta di una sfida cruciale che le aziende si trovano a gestire, e che chiama in causa il difficile equilibrio fra la necessità di personalizzare i contenuti dei collaboratori e di assicurare la coerenza fra le molteplici voci di questi ultimi e l’identità aziendale.
L’opinione di Giovanna Di Bacco, Internal Communication & Engagement Manager, L’Oréal Italia
In un concetto moderno di comunicazione interna e di employee engagement non si può prescindere dall’employee advocacy o ambassadorship. Il collaboratore diventa infatti protagonista attivo di una comunicazione che segue le dinamiche del mondo social, veicolando messaggi aziendali in modo autentico e di conseguenza più credibile. In particolare, l’uso dei social media come strumento di comunicazione aziendale e ancor più il crescente fenomeno dei microinfluencer hanno fatto sì che il collaboratore possa diventare un ambassador della propria azienda, creando contenuti afferenti al brand, ai valori e ai progetti aziendali.
Parlare quindi di employee advocacy è rilevante per 3 obiettivi:
- Amplificare il messaggio dell’azienda utilizzando le reti personali
- Avere voci, racconti ed espressioni autentiche rispetto a ciò che accade in azienda
- Attrarre nuovi talenti e/o fare retention sugli attuali.
Infatti, i messaggi condivisi dai collaboratori generano maggiore engagement e fiducia, mostrando un’organizzazione umana e potenziando l'employer branding. Inoltre, i collaboratori che fanno parte di programmi di advocacy denotano un forte senso di appartenenza e orgoglio interno, con un tasso di engagement più elevato rispetto alla media.
Tuttavia, non mancano i rischi e gli aspetti controversi rispetto alla gestione di programmi di advocacy. In primis, l’esposizione dei collaboratori su questioni controverse, come guerre o decisioni politiche, o comportamenti inappropriati possono arrecare danni significativi al brand. Inoltre, una sfida importante è quella di preservare l'autenticità dei comportamenti dei collaboratori: un programma eccessivamente rigido può snaturare l'iniziativa. È quindi fondamentale che l'advocacy sia volontaria e guidata da un genuino desiderio di promuovere l'azienda perché si è profondamente allineati con essa.
Solo se si mette in piedi una strategia di comunicazione interna trasparente, coerente e ingaggiante, allora i collaboratori si sentono costantemente informati, valorizzati e sufficientemente allineati con la visione aziendale tanto da diventarne promotori credibili.
L'employee advocacy rappresenta quindi una profonda evoluzione della relazione tra azienda e collaboratore. Non si tratta più solo di collaboratori che ricevono contenuti, ma di persone che, sentendosi parte integrante della narrativa aziendale, ne diventano voci autentiche e in certi casi autorevoli. Per i professionisti della comunicazione interna, ciò vuol dire lavorare sull'empowerment e sull’engagement delle persone per elevarle a voci aziendali.